Sul sito dell’Agenzia europea dell’ambiente viene definito come:

“Un inquinamento dell’aria contenente ozono e altri composti chimici reattivi formati dall’azione della luce del sole sugli ossidi di azoto e gli idrocarburi”.

Cos’è?

E’ un particolare tipo di inquinamento che si viene a creare in giornate caratterizzate da condizioni meteorologiche di stabilità e di forte insolazione. È la forma di smog più diffusa nelle nostre città, in quanto alla sua formazione contribuiscono soprattutto le attività umane.

Da cosa deriva?

Dagli ossidi di azoto che sono emessi nei processi di combustione, quindi principalmente dai veicoli che utilizzano combustibili fossili (benzina e diesel), la combustione della legna e l’incenerimento dei rifiuti, oltre agli incendi boschivi, e dai composti organici volatili (Voc), che comprendono sostanze come benzene, etanolo e miscele come la benzina. Essi vanno incontro ad un complesso sistema di reazioni fotochimiche, e data la loro origine prettamente antropica questo tipo di inquinamento andrà a caratterizzare soprattutto le aree urbane.

Cos’è una reazione fotochimica?

Una reazione chimica indotta dall’interazione della luce con la materia.

La luce è un tipo di radiazione elettromagnetica e quindi una fonte di energia. Essa va a fornire l’energia di attivazione (energia minima necessaria ad un sistema per innescare una reazione chimica) necessaria per molte reazioni. La luce funge dunque da catalizzatore.

Sono soprattutto l’ultravioletto, la luce visibile e l’infrarosso le bande dello spettro elettromagnetico a caratterizzare queste reazioni.

L’esempio più comune di reazione fotochimica in natura è la fotosintesi, nella quale la maggior parte delle piante utilizza l’energia solare per convertire la CO2 e l’acqua in glucosio (C6H12O6), rilasciando ossigeno nell’atmosfera.

Quali sono i prodotti di queste reazioni che vanno a generare l’inquinamento?

Da queste reazioni si ha la produzione di ozono (O3), perossiacetil nitrato (PAN), perossibenzoil nitrato (PBN) e aldeidi, oltre a centinaia di altre sostanze a basse concentrazioni. Questi sono chiamati inquinanti secondari perché vengono generati dalla reazione chimica in atmosfera di altre sostanze.

Reazione di formazione dell’ozono nella troposfera: NO2 + radiazione elettromagnetica -> NO + O O2 + O —-> O3

Come si manifesta?

In certe giornate calde e soleggiate l’aria ha la tendenza a colorarsi di un arancione-marroncino chiaro, un effetto che deriva dalla presenza nell’aria di grandi quantità di biossido di azoto che causano lo smog fotochimico.

Gli effetti sulla vita

Ci sono centinaia di sostanze chimiche potenzialmente tossiche nello smog fotochimico, a cominciare dall’ozono e dal perossiacetil nitrato. Gli effetti sono molteplici, dall’irritazione agli occhi e alla gola, un senso di affanno, nel caso di esposizione a bassi livelli di concentrazione, fino a quelli più gravi come le malattie respiratorie e l’aumento del rischio di cancro ai polmoni, quando siamo sottoposti a livelli alti di inquinamento fotochimico. Esso non ha conseguenze negative solo sugli esseri umani e sugli animali ma anche sulla vegetazione, questi inquinanti possono penetrare nelle piante attraverso gli stomi delle foglie dove distruggono la clorofilla. Le conseguenze su di esse sono deleterie, dall’interruzione della crescita fino alla morte. Inoltre sono in grado di provocare il rapido deterioramento di molti materiali diversi per il loro forte potere ossidante.

Effetti sull’ambiente

Lo smog provoca:

Il problema nell’ozono – un processo inverso

Se l’ozono è dannoso a basse altitudini nella troposfera, esso è invece un componente essenziale della stratosfera situata fra i 15 e i 50 Km di altezza. Qui si trova la quasi totalità della riserva planetaria di ozono, in particolare nella fascia compresa fra i 20 e i 30 Km, chiamata per l’appunto ozonosfera.

“Tutta la vita sulla Terra dipende dall’esistenza di un sottile schermo di un gas velenoso, in alto nell’atmosfera: lo strato di ozono”

Ozone Secretariat, UNEP, “Action on Ozone”

La quantità di ozono presente nella stratosfera viene mantenuta costante mediante un equilibrio dinamico fra la reazione di formazione e quella di fotolisi (processo fotochimico per il quale una entità molecolare subisce scissione mediante l’assorbimento di radiazione elettromagnetica, in genere vicino allo spettro di luce ultravioletta). La formazione predomina ad un altitudine superiore ai 30 Km, dove la radiazione UV con lunghezza d’onda inferiore ai 242nm dissocia l’ossigeno molecolare, O2, in ossigeno atomico, O. Questo si combina rapidamente con un’altra molecola di ossigeno (O2) a formare la molecola triatomica dell’ozono (O3). Le molecole di ozono formate assorbono a loro volta la radiazione solare di lunghezza d’onda compresa fra 240 e 320nm, subendo fotolisi e dando luogo ad una molecola ed un atomo di ossigeno.

L’assorbimento della radiazione solare ha un’importantissimo effetto, funziona da schermo per il pianeta, proteggendoci da più del 90% delle radiazioni UV, in particolare quelle chiamate UV-B al 95% e totalmente le UV-C, mentre lascia trapassare quasi totalmente i raggi UV-A.

Ma cosa succede se entrano in gioco nuove sostanze a distruggere l’ozono stratosferico?

Il cloro è in grado di inserirsi in questo meccanismo modificando questa situazione di equilibrio dinamico fra formazione e distruzione dell’ozono. Questo gas è presente in sostanze dette cloroflurocarburi (CFC) commercializzati con il nome di freon, utilizzati nei circuiti di refrigerazione dei frigoriferi e negli impianti di condizionamento.
Quando un atomo di cloro collide con una molecola di ozono si appropria del terzo atomo di ossigeno per cui si vengono a formare una molecola di O2 e un radicale di monossido di cloro (ClO).
Tale radicale è notevolmente attivo per cui si combina facilmente con atomi di ossigeno liberando ancora il cloro che resta disponibile per ricominciare il ciclo di distruzione dell’ozono. Anche il bromo in alcune sostanze può avere un comportamento simile.

Il risultato di tali reazioni è una diminuzione della quantità di ozono nella stratosfera. Infatti, un singolo atomo di cloro è in grado di perpetrare la sua azione distruttiva nei confronti dell’ozono fino a due anni dalla sua liberazione, reagendo con 100 000 molecole di ozono prima di essere rimosso dal ciclo catalitico. Tuttavia tale ciclo può essere interrotto attraverso il completamento di cicli nulli, ovvero reazioni che portano alla formazione di molecole che non reagiscono a catena con altri componenti presenti in atmosfera.

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Il buco nell’ozono

Nel 1974 grazie alle prime misurazioni effettuate da Sherry Rowland avviene la scoperta di un assottigliamento marcato dello strato di ozono sopra le aree polari. Nel 1982 si è cominciato a studiare e misurare il fenomeno fino a scoprire pochi anni dopo che l’assottigliamento sopra le regioni polari aumentava di anno in anno. Sul finire del 1985, i governi mondiali ritennero necessario adottare delle misure per ridurre la produzione e il consumo dei gas Clorofluorocarburi (CFC), ritenuti in quegli anni gli unici responsabili dell’aumento dell’assottigliamento dell’ozono. Nel 1987 venne firmato il Protocollo di Montréal, che imponeva la progressiva riduzione della produzione di CFC. Nel 1988 il fenomeno del “buco dell’ozono” dapprima esclusivamente al Polo Sud cominciò ad apparire anche sopra il Polo Nord. Nel 1990 più di 90 paesi decisero di sospendere la produzione di gas CFC. Dopo gli studi degli anni 2000 si è scoperto che i CFC non sono l’unica fonte di cloro per l’atmosfera.

Nel giugno del 2016 il MIT annuncia che, dai dati delle rilevazioni sulla quantità di ozono presente sull’Antartide a ottobre 2015, il buco nell’ozono si è ridotto di circa 4 milioni di km quadrati rispetto all’anno 2000, quando esso ha raggiunto la sua massima espansione. Questo effetto si deve alla marcata riduzione nelle emissioni di CFC in atmosfera. Gli scienziati ipotizzano che, proseguendo con questa tendenza, il risanamento permanente del buco nell’ozono si avrà intorno al 2050.

L’influenza della stagionalità

Nel 2020 il buco dell’ozono antartico si è chiuso alla fine di dicembre, come dichiarato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm); ricordando che però era cresciuto rapidamente da metà agosto 2020, raggiungendo il picco di circa 24,8 milioni di chilometri quadrati il 20 settembre, diffondendosi su gran parte del continente antartico, come possiamo spiegare questa grande variazione in così poco tempo?

Bisogna andare ad analizzare la circolazione delle masse d’aria nell’atmosfera.

Per via della circolazione invernale dell’atmosfera ai poli e a causa delle temperature bassissime si verifica la formazione di nubi stratosferiche polari e vortici, che circolano intorno ai poli e sono isolati dal resto dell’atmosfera. All’interno di queste nubi si ha la formazione di grandi quantità di cloro molecolare gassoso (Cl2) che si origina dai clorofluorocarburi (CFC). Al primo sole primaverile il cloro molecolare gassoso si dissocia per mezzo della radiazione ultravioletta in cloro monoatomico radicale che innesca la reazione di distruzione dell’ozono stratosferico sopra l’Antartide. Alla fine della primavera, il vortice polare si rompe e si ha l’afflusso di aria proveniente dalle zone tropicali, dove l’ozono si forma preferenzialmente a causa della radiazione solare più intensa, i meccanismi di distruzione catalitica dunque si arrestano e il “buco” si richiude.

Alla base dell’allargamento o restringimento annuale del buco dell’ozono contribuiscono i seguenti fattori:

Il motivo per il quale il buco dell’ozono è più intenso al Polo Sud rispetto al Polo Nord è dato dall’intensità del vortice polare che si sviluppa nell’inverno prima del fenomeno e dalle temperature, al Polo Sud è più freddo e più intenso e quindi si hanno assottigliamenti maggiori rispetto al Polo Nord.

Conseguenze

Quando lo strato si riduce, aumenta la quantità di radiazioni che raggiunge la superficie terrestre. Dosi maggiori questi raggi ultravioletti hanno effetti gravi su tutta la vita di microrganismi, animali, piante, addirittura le materie plastiche risentono dei loro effetti. Nell’essere umano esposizioni prolungate a radiazioni ultraviolette portano a: danni agli occhi, alterazioni del sistema immunitario, tumori alla pelle, melanomi, carcinomi, accelerazione dell’invecchiamento cutaneo.
Anche gli animali sono soggetti a danni simili.

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